Io mi chiamo Gerardini Macrì Vera nata a Cosenza il 10- 05- 1947 in Viale Trieste n. 60 Cosenza, l’ostetrica si chiamava Profita Maria di Pietro mi dichiarò al comune di Cosenza con Ufficiale Albi Marini…. mi dette il nome Vera Gerardini e poi fui portata al Brefotrofio di Cosenza. Dopo 14 giorni fui battezzata nella Cappella del Brefotrofio, la madrina si chiamava Fabbricatore Giovannina, il sacerdote si chiamava Gaetano Spadafora Cosenza. Venne una famiglia di Cetraro e mi portarono via per poco , non so altro , poi mi portarono di nuovo al Brefotrofio e li sono rimasta fino all’età di 8 anni circa, poi venne una famiglia di Cerenzia provincia Crotone , si chiamavano Cariati Biagio e Spina Filomena , e mi dettero il cognome d’adottata Cariati Vera …….voglio trovare le mie origini ……
Continua l’inchiesta Gazzetta del Sud a firma di Matteo Dalena sul diritto alla conoscenza delle origini. Oggi Matteo ci racconta con dovizia di particolari le storie di Sara (Anna Maria Vinti) e Vera (Vera Cariati) e le stragi di bimbi nel brefotrofio cosentino tenuteci nascoste.
Non finiremo mai di ringraziare Matteo Dalena con La Gazzetta Del Sud per il supporto dato alle nostre lacrime.La professionalità di Matteo spero possa svegliare gli animi dormienti di chi è preposto a far luce e dare giustizia.
LA DIFFICILE RICERCA DELLE ORIGINI PASSA ATTRAVERSO LA CRUNA DELLA BUROCRAZIA
«Un inferno la nostra infanzia da figlie di nessuno, aiutateci a recuperare le nostre origini».
Dopo la storia di Ada Neville, abbandonata 66 anni fa dalla madre naturale subito dopo il parto e che rivendica il diritto di conoscere le proprie origini biologiche, altre due donne cosentine, probabilmente anch’esse figlie della colpa o del peccato, hanno deciso di fare i conti con il proprio scomodo passato. Infanzie segnate da abbandono, mancanza di cure e dignità, rassegnazione e paura quelle di Vera Gerardini Macrì e Sara Egeo: «Alla Gazzetta del Sud diciamo grazie per questa inchiesta sulle nostre memorie individuali che diventano sociali nel momento in cui vanno a interessare una storica istituzione assistenziale cittadina».
La storia di Vera è da brividi.
Nata a Cosenza il 10 maggio del 1947 da «donna nubile che non ha acconsentito a essere nominata», forse per intercessione dell’ostetrica che la fece nascere, Maria Profita, viene introdotta nel brefotrofio di Corso Umberto dove pochi giorni dopo riceve il battesimo dal sacerdote Giovanni Spadafora in presenza della madrina Giovannina Fabbricatore: «Quel luogo mi lasciò ferite mai rimarginate».
Per Vera si fa avanti una famiglia di Cetraro: la bimba viene affidata a un certo Giuseppe Mastro Giacomo che però poco tempo dopo la riconsegna al brefotrofio.
Qui si apre la fase più buia di questa piccola e sradicata esistenza: «Le suore del brefotrofio mi facevano stare nel bagnato perché facevo la pipì nel letto, mi chiudevano in una stanza buia e io avevo paura, mai una carezza, mai un sorriso».
A otto anni Vera viene adottata da un’altra famiglia, potrebbe essere la fine di un incubo ma è appena l’inizio: «Per loro ero solo braccia da lavoro per la campagna. Se sbagliavo quell’uomo che avrebbe dovuto farmi da padre mi picchiava».
Sara Egeo nasce all’ospedale di Cosenza il 9 agosto del 1956 e pochi giorno dopo viene iscritta all’anagrafe dagli infermieri Luigi Vincenzo e Pasquale Merola: «Mia madre non mi riconobbe perché nubile e quindi mi portarono in quel luogo triste».
A diciotto mesi Sara stenta persino a “gattonare”, non è affetta da malattie ma ha problemi di nutrizione: «Le suore mi tenevano sempre a letto. Nei brefotrofi non si perde tempo a insegnare ai bambini ciò che si apprende in una famiglia vera».
Diventate donne, Vera e Sara, decidono che è arrivato il momento di sapere. Messesi alla ricerca del proprio “diario di accrescimento” tenuto dal brefotrofio (Ipai), Sara Egeo ha una brutta sorpresa: «All’archivio della Provincia mi dicono che non devo più cercare. Ma quei documenti mi appartengono! In Ospedale mi dicono che le cartelle cliniche sono andate distrutte in un incendio». Sara non possiede neanche copia dell’atto di battesimo e la richiesta di ogni certificato della propria vita le risulta impossibile.
Le ricerche di Vera Gerardini Macrì vanno invece a rilento: «Considerando la mia età, vorrei tanto la modifica dell’incostituzionale “legge dei 100 anni” che ci impedisce di sapere fosse approvata in tempi brevissimi dal Senato, piuttosto che stare sul tavolo da otto mesi. Nell’attesa la realtà giudiziaria è divenuta pesante e inaccettabile, i Tribunali agiscono secondo la sensibilità dei giudici, creando così una grande discriminazione territoriale».
Sara e Vera si appellano alla benevolenza dei giudici calabresi e di qualche attento avvocato cosentino disposto a studiare tale materia: «Davanti a noi troviamo muri di gomma. Dopo anni di sofferenze pretendiamo di conoscere le nostre origini, vogliamo poter piangere sulla tomba della persona che ci ha messo al mondo».
Sara Egeo e Vera Gerardini Macrì, come tante “figlie e figli di nessuno”, cresciute entrambe nel vecchio brefotrofio cosentino, fanno parte del “Comitato nazionale per il diritto alla conoscenza delle origini biologiche” presieduto da Anna Arecchia. Con centinaia di aderenti in tutta Italia il Comitato si batte per un rapido e agevole progresso dell’esame del “disegno di legge 1978” che ormai da otto mesi è all’esame del Senato e che porterebbe il Paese in linea con direttive europee e convenzioni internazionali sulla «necessità di offrire a ciascun individuo la piena cognizione di se stesso e delle proprie origini, quale imprescindibile diritto della persona umana».
LE STRAGI DI BIMBI NELL’ISTITUTO ANNESSO ALL’OSPEDALE
«Qui s’ammazzano i bambini a spese della Provincia di Cosenza». Così Guglielmo Tocci, già parlamentare per il collegio di Rossano, definì nel 1878 la situazione interna al brefotrofio di Cosenza annesso all’ospedale civile. Una vera e propria strage d’innocenti i cui numeri sono a oggi poco conosciuti. In dieci anni (1865-1876) su 7.447 bambini ricoverati, ben 6.107 erano morti entro i primi tre mesi per malattia o inedia, nonostante i cospicui contributi annui della Deputazione provinciale. La relazione più illuminante circa lo stato di degrado in cui versava il brefotrofio, all’epoca meglio noto come “ospizio d’infanzia” è quella che Felice Migliori, medico e direttore dell’Ospedale cosentino dal 1873 al 1913, tenne in occasione della “Inaugurazione delle conferenze scientifiche del personale medico della pubblica assistenza di Calabria Citeriore”: «C’è da restare inorriditi nello scorgere in due tetre, umide e ammuffite stanzacce degli immondi e angusti giacigli ricettare ognuno due balie dalla lurida persona, dalle mammelle esauste, con sei tenere creaturine, alcune morte, altre morenti a far loro da nido e sepoltura ad un tempo». Una vera e propria tomba il brefotrofio di Cosenza, chiamata indistintamente nelle colonne dei periodici d’epoca “piccola necropoli”, “vera e propria casa infame” o, peggio ancora, “fabbrica della morte”. I numeri della “morte in culla” erano talmente preoccupanti da innescare accesi dibattiti, vere e proprie risse su carta, tra amministratori comunali e provinciali, vecchi e nuovi gestori del brefotrofio, in uno “scarica barile” senza fine. Guglielmo Tocci puntava il dito contro il clientelismo galoppante delle varie giunte comunali che, quasi sempre insolventi per le quote di mantenimento dell’istituto, si affrettavano a ricoverare un numero di bambini eccedenti il numero delle balie, praticando un’assurda selezione naturale e dunque un «infanticidio previsto e organizzato a sistema». Ma nemmeno la Provincia si scoprì immune da colpe: nelle lotte intestine per il potere, gli amministratori delle Opere Pie, voci autorevoli ed elettori in seno al consiglio provinciale, amministravano i patrimoni degli istituti benefici a proprio uso e consumo, invertendone parti cospicue per paghe e gratificazioni di impiegati assunti per vie clientelari. Inchieste prefettizie, commissariamenti e riorganizzazioni interne furono una costante ma riuscirono a limitare solo in parte l’incidenza del fenomeno. Così per mezzo di queste e altre «malattie amministrative» nel brefotrofio si continuava a morire per oftalmie, blefarotalmie, angine cotennose, crup, difterite, mughetto, noma, pneumonie, dissenterie, idrocefalo e tra «le escrezioni abbondanti e fetide in mezzo alle quali trovansi gittati i bambini che viziano rapidamente l’atmosfera e poiché essi assorbono con facilità, s’impregnano del loro stesso mefitismo». Si tentò la misura del “baliatico esterno”, inviando cioè i bambini direttamente dalle loro nutrici ma, ancora nel 1914 e cioè un anno dopo il congedo del dottor Migliori, nonostante i tassi di mortalità si fossero notevolmente abbassati, il brefotrofio versava ancora in «condizioni pietosissime e disastrose» con solo 12 balie per oltre 40 bambini spesso ammessi per «influenze superiori, simulate dall’urgenza» (matteo dalena)
Buongiorno
da qualche mese mi sto occupando dei registri dello Stato Civile del Comune di San Pietro in Guarano (Cs), per un lavoro di ricerca. Verso la fine del 1800 ho constatato che nele registro dei Nati aumentava il numero dei bambini di ” Ignoti ” che dopo la registrazione da parte del Sindaco o del Segretario delegato veniva inviati all’Ospizio d’Infanzia Provinciale di Cosenza o Brefotrofio provinciale di Cosenza, che successivamente capii fosse lo stesso istituto. Ma molto bambini non venivano inviati all’istituto ed affidati alla “levatrice” che garantiva l’allattamento e la custodia.
E’ mia convinzione che questi ultimi venivano ripresi in casa dalla mamma anche se con un nome e cognome di invenzione da parte dell’ufficiale dello Stato Civile. In effetti dopo diversi anni sul registro di nascita veniva riportato il riconoscimento di figlio leggittimo di ……….
Sono andato alla ricerca presso l’Archivio di Stato di Cosenza dei Registri del Brefotrofio di Cosenza ma mi è stato risposto che, essendo il Brefotrofio di Cosenza a livello provinciale, la documetazione doveva essere custodita presso l’Ente Provincia. Mi sono recato presso la Provincia di Cosenza e dal Dirigente responsabile dell’archivio ho avuto la triste risposta che nei loro archivi non erano custoditi registri o cartelle riguardanti i bambini inviati dai Comuni della Provincia di Cosenza a seguito dell’abbandono degli stessi.
Che fine hanno fatto i registri e le cartelle di tutti i bambini inviati all’istituto di Cosenza? Se alla chiusura dell’istituto tutto questo materiale, sarebbe un fatto veramente vergognoso di cui bisognerebbe aprire una indagine seria per risalire ai responsabili artefici di un danno storico, non solo ai bambini e ai loro attuali parenti ancora in vita per poter risalire alle proprie origini, ma all’intera Comunità degli studiosi che sono costretti a lasciare incomplete ricerche storiche che potrebbero rendersi utili a tutti i cittadini.
Se avete delle notizie a riguardo, vi sarei grato se mi portate a consocenza di eventuali sviluppi.
Igino Vigna